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“Sei complice”: la campagna shock contro il revenge porn nata dallo IED di Roma

“Se guardi, sei complice.” La campagna dello IED scuote Roma e chiama tutti a riflettere sul revenge porn. Tu da che parte stai?

Il coraggio delle studentesse per denunciare una violenza digitale sempre più diffusa

Roma si è risvegliata, nei giorni scorsi, con i muri tappezzati da frasi inquietanti. “Guardate Francesca com’è stata brava l’altra notte”, “Ora tutti vedranno i tuoi video”, “Guardate tutti quella st…a della mia ex nuda”.

Campagna contro Revenge Porn – Frasi che riecheggiano nei gruppi Telegram, nei commenti anonimi, nei forum in cui ogni giorno immagini e video intimi vengono diffusi senza consenso. Ma questa volta quelle parole sono comparse negli spazi pubblici della Capitale, non per offendere, bensì per scuotere le coscienze.

A lanciarle nel cuore della città sono state le studentesse dello IED – Istituto Europeo di Design – attraverso Sei complice, una campagna di guerrilla marketing mirata a sensibilizzare sul fenomeno del revenge porn, o più correttamente, della diffusione non consensuale di immagini intime. Un’azione diretta, provocatoria e consapevole, che trasforma l’atto di guardare in un momento di riflessione etica.


Dallo schermo alla strada: una provocazione per rompere il silenzio

L’iniziativa nasce con l’intento preciso di spostare l’attenzione dal piano virtuale a quello fisico. Le frasi, riprodotte su volantini affissi in punti nevralgici della città, sono accompagnate da un QR code. Una volta inquadrato, l’utente viene indirizzato a un video che, almeno all’inizio, sembra appartenere proprio alla categoria che la campagna intende denunciare: un busto femminile, una voce maschile fuori campo che invita la ragazza a spogliarsi.

Ma il tono cambia repentinamente. La telecamera si sposta sul volto di un ragazzo che, guardando dritto in camera, interrompe la narrazione con una domanda tagliente: “Cosa pensavi di vedere?”. Segue un messaggio chiaro e diretto: guardare questi contenuti è già un atto di complicità. Non solo diffondere, ma anche visualizzare materiale intimo non autorizzato è parte integrante del problema.

Lo slogan scelto, “Se guardi, sei complice”, non lascia spazio ad ambiguità. È un’accusa collettiva ma anche un invito a riconsiderare il ruolo individuale in un sistema di violenza digitale ancora troppo tollerato.

Uno dei Filmati della campagna

“Se guardi, sei complice.” La campagna dello IED scuote Roma e chiama tutti a riflettere sul revenge porn. Tu da che parte stai?
Uno di Filmati della Campagna

Un fenomeno in espansione tra i giovani

La diffusione non consensuale di immagini intime è una piaga sempre più presente, in particolare tra i giovanissimi. Secondo una recente indagine Nielsen condotta nel 2024 su giovani tra i 18 e i 27 anni, il 25% degli intervistati conosce personalmente almeno una vittima di revenge porn, mentre il 4% dichiara di aver subito direttamente la condivisione abusiva di contenuti privati.

Il dato più preoccupante è la normalizzazione del fenomeno. Nelle chat, nei gruppi privati, nelle app di messaggistica, i video vengono fatti circolare con superficialità e spesso con un tono di complicità virile, che oscilla tra la derisione e l’esaltazione. La condivisione automatica, priva di empatia, è diventata quasi un riflesso culturale. E spesso, quando i contenuti diventano virali, le vittime – per la maggior parte donne – vengono giudicate più di chi ha infranto la loro intimità.


Il nodo della responsabilità: cambiare la prospettiva

Uno degli obiettivi principali di Sei complice è quello di spostare la narrazione: non più concentrarsi solo sulle vittime, ma denunciare apertamente il comportamento di chi guarda, condivide, commenta. Il silenzio, l’indifferenza, l’inazione sono parte attiva di un meccanismo perverso. È il sistema intero a dover essere messo sotto accusa.

Come affermano le stesse studentesse dello IED: “Tutti si concentrano sulle vittime, ma nessuno punta il dito su chi alimenta il sistema”. Il progetto intende così interrompere l’apatia generale, provocare disagio e trasformare la curiosità in consapevolezza, in un momento in cui il revenge porn sta acquisendo proporzioni sempre più gravi e sottovalutate.


La legge esiste, ma la paura blocca le denunce

Dal 2019, in Italia, il revenge porn è riconosciuto come reato grazie all’articolo 612-ter del Codice Penale. La normativa prevede pene che vanno da 1 a 6 anni di reclusione e multe dai 5.000 ai 15.000 euro, aumentate se l’autore è un partner o un ex. Eppure, le denunce restano ancora troppo poche.

La vergogna, il timore di non essere credute, la pressione sociale e la vittimizzazione secondaria – ossia la colpevolizzazione di chi subisce – sono fattori che spesso impediscono alle donne di intraprendere un percorso legale. “Perché ha fatto quei video?” è ancora oggi una domanda più frequente di “Perché qualcuno li ha diffusi?”

La cultura del consenso, invece, dovrebbe essere il punto di partenza di ogni riflessione. Il problema non sono le immagini intime in sé – che in un contesto privato e consensuale non rappresentano nulla di illegittimo – ma la loro esposizione forzata e non autorizzata.


Il ruolo dei media e dell’educazione

Per arginare il fenomeno, servono strumenti legali, ma anche una profonda trasformazione culturale. L’educazione affettiva e digitale, l’alfabetizzazione emotiva e la formazione sui diritti della persona devono entrare nei programmi scolastici, universitari e professionali.

I media, da parte loro, hanno la responsabilità di non spettacolarizzare le notizie, di non scivolare nel voyeurismo, ma di mantenere l’attenzione sulla violazione del diritto all’autodeterminazione e alla dignità della persona.

Campagne come Sei complice dimostrano quanto sia potente il linguaggio dell’arte e della comunicazione visiva nel sollevare domande scomode e generare riflessione. La forza di questo progetto sta nella capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore e costringerlo a confrontarsi con il proprio ruolo.


Una rete di supporto per chi ha subito revenge porn

Oltre alla provocazione visiva, il collettivo dello IED ha realizzato anche un sito web, dove è possibile trovare informazioni, riferimenti legali, indicazioni su dove chiedere aiuto e, soprattutto, uno spazio per condividere esperienze. Le storie pubblicate mostrano un dolore silenzioso, ma anche un crescente desiderio di riscatto e giustizia.

Come quella di una ragazza che racconta: “Dopo aver lasciato il mio ragazzo, ha diffuso tutte le foto che gli avevo mandato quando stavamo insieme. Il mio telefono si è riempito di messaggi, anche da sconosciuti. E lui, non contento, mi ha scritto: ‘Adesso tutti vedranno che razza di schifo sei’”.

Testimonianze come questa sono fondamentali per rompere il muro della vergogna e dimostrare che nessuna è sola. La condivisione consapevole può diventare strumento di denuncia e solidarietà.


Quando la comunicazione diventa strumento di cambiamento

Sei complice è un esempio concreto di come il design, la creatività e la comunicazione possano essere utilizzati per promuovere diritti e generare impatto sociale. Non si tratta solo di una campagna pubblicitaria, ma di un gesto politico e culturale, che affonda le sue radici nell’urgenza di proteggere la libertà e la dignità di ogni individuo.

La lotta al revenge porn non può essere demandata alle vittime. È una responsabilità collettiva. E guardare, oggi più che mai, significa scegliere da che parte stare.

Fonte: Vanity Fair

Il sito dell’iniziativa: Seicomplice.org